Un avvenimento che merita ricordare riguarda la barchetta che usavamo lungo il Piave.
Era accaduto che, nel corso di uno degli ultimi passaggi sopra Quero delle fortezze volanti americane dirette a bombardare le vicine città e sopratutto Treviso, nel mentre seguivamo con lo sguardo le formazioni che avanzano molto lentamente ad alta quota con un cupo rombo che ci pervadeva di terrore, ci colpisse la caduta dall’alto di un oggetto metallico, forse una bomba, brillante alla luce del sole e che finì nella vicina campagna con un forte tonfo ma senza esplodere. Con la nostra solita imprudenza ed ignorando completamente i genitori che ci avevano messo in guardia sul pericolo che sicuramente presentava l’oggetto, ci precipitammo in zona e, con nostra grande sorpresa, trovammo un serbatoio affusolato in alluminio lungo circa tre metri che, evidentemente ormai inutilizzato, era stato scaricato dagli aerei. Portatolo prontamente a casa lo trasformammo in una bella barca asportandone la parte superiore, e quindi cominciammo a scorazzare lungo il Piave allora molto ricco d’acqua. La nostra barca poteva portare tre o quattro di noi e, trasportata dalla corrente molto veloce, farci divertire molto ma, essendo priva di chiglia, mancava di stabilità e spesso e volentieri si capovolgeva facendoci entrare tutti in acqua. Era questo un motivo in più per farci usare molta catela ed in primo lugo evitare assolutamente le zone in cui il Piave faceva dei gorghi (i ghirli), pericolosissimi vortici d’acqua nei quali ogni anno qualche nuotatore non molto esperto moriva annegato.
Ove non avessimo adottata tale importante regola, l’episodio che stò per raccontare sarebbe sicuramente finito con una tragedia.
Alcuni mesi dopo, a guerra finita, Antonio, un nostro coetaneo di Alano di Piave insistette tanto e ci convinse di portarlo a fare un giretto per fargli provare l’ebbrezza della nostra barca in balia delle onde tumultuose del fiume. Come ebbe luogo l’immancabile capovolgimento del natante, noi ci affrettammo a raggiungere a nuoto la riva del Piave trainando la barca ancora sottosopra. Non appena arrivati a terra, ci accorgemmo che Antonio non sapeva, come tutti noi, nuotare e che la forte corrente lo stava trasportando velocemente a valle, senza che il malcapitato riuscisse, ovviamente, a restare a galla. Non sapendo come soccorrerlo ci limitammo a seguire la corrente correndo e gridando lungo la sponda sassosa del fiume. La cosa proseguì per un tempo che ci parve interminabile tanto da farci temere il peggio per Antonio. Ad un certo momento accadde un fatto che sà di miracoloso. Fù la corrente assai impetuosa e ad andamento irregolare che, senza alcun nostro intervento, parve voler espellere quanto aveva precedentemente inghiottito e quindi rimandò Antonio verso la riva in modo che noi potessimo adagiarlo, privo di sensi, sui sassi e praticargli quel po’ di respirazione artificiale, di movimenti alle braccia e spinte alternate sul ventre di cui sapevamo ben poco ma che sono state sufficienti per farlo rinvenire e quindi portare a fine la vicenda nel migliore dei modi. Io credo che Antonio ai nostri giorni, quando nello svolgimento della abituale professione svolta in quel di Feltre, compila le polizze con le quali assicura i suoi clienti contro qualunque genere di rischio, non possa cancellare dalla sua mente un altro rischio e cioè quello gravissimo da lui corso nel Piave senza essere protetto da alcuna assicurazione ma solo dalla fortuna, dal destino, dalla Divina Provvidenza, comunque si voglia chiamare quel qualcosa che lo ha allora salvato da sicura morte.