LA FUGA DALLE SS TEDESCHE di Giacomo Berton

Giacomo in divisa da soldato

 

“Libertà”. E un termine consueto e ricorrente: lo leggo sui giornali, lo sento spesso alla televisione. E’ una parola che per me mantiene un fascino particolare, forse perché mi richiama alla memoria immagini di un episodio della mia gioventù che, nel corso della vita, non ho mai dimenticato.
Mi riesce difficile ritornare, senza una grande emozione, a quel lontano 1944, quando l’Italia viveva nell’incubo della Seconda Guerra Mondiale con le sue tremende devastazioni.
…Era una bella giornata, il cielo era terso e l’aria tiepida preludeva alla fine dell’estate. Mio fratello Giovanni ed io stavamo ritornando dalla campagna con un carretto a due ruote carico di circa centocinquanta chili di fieno, che ci serviva per le mucche. Vedemmo avvicinarsi una camionetta delle “SS” e così pregai mio fratello affinché mi aiutasse a posizionare il carro più a destra per favorire il passaggio dei Tedeschi i quali, purtroppo, non proseguirono ma si fermarono.
L’autista rimase al posto di guida, altri due corsero velocemente verso un’abitazione di contadini e il terzo, un repubblicano loro collaboratore, ci intimò con le dovute maniere di raggiungere la piazza antistante la chiesa dove il comandante avrebbe elargito degli utili consigli a tutta la popolazione.
Ci incamminammo a malincuore e, notata in quel tratto di strada una siepe alta due metri, meditai di andare a nascondermi con mio fratello; ma subito capii che era un’impresa impossibile perché l’autista della camionetta ci stava seguendo.
Arrivammo in piazza, dove erano già radunate un centinaio di persone. Tre ragazzi erano già in stato di fermo, per cui mi rivolsi ad un mio vicino e gli chiesi: “Poverini, cosa faranno loro quelle canaglie?”.
Improvvisamente mi sentii afferrare e trascinare verso il comandante: ero il quarto prescelto! Al gruppetto poi si aggiunse un quinto e allora il colonnello parlò con voce tonante: “Queresi, aprite bene le orecchie! Siamo giunti alla vigilia del rastrellamento del Monte Grappa e dintorni: elimineremo tutti i partigiani! Se uno di noi verrà ucciso, questi cinque ragazzi, che sono nelle nostre mani, verranno fucilati lì, contro il muretto della chiesa! Avete capito bene? E adesso ritornate alle vostre case!”.
Solo poche ore prima avevo un futuro: ora più niente. Dovevo solo accettare quello che non potevo cambiare. Accomunati dalla stessa angoscia, fummo scortati fino al camion, tra lo sgomento generale. Fui l’ultimo a salire e, improvvisamente, riconobbi nell’autista che stava aspettando per chiudere il portellone, un mio ex compagno d’armi: avevamo fatto insieme il corso di marconista in Jugoslavia e, soprattutto, avevamo condiviso le drammatiche vicende dell’otto settembre del ’43, camminando per diciannove giorni attraverso la campagna e le colline per evitare le staffette tedesche che presidiavano strade e ponti.
Non c’era tempo da perdere e cercai disperatamente di parlargli. Egli però ribadì di essere una vittima degli avvenimenti: se non avesse eseguito gli ordini, sarebbe stato deportato in Germania in un campo di concentramento. La mia voce suonò innaturalmente calma e distante: “Ciao, amico: ti capisco… la vita innanzi a tutto!”. Aveva un moschetto con una bella cinghia di cuoio e, prendendolo per la canna, mi diede un colpo sulla schiena. Velocemente salii sul camion, che era coperto da un telone grigio; all’interno c’erano delle panche di legno sulle quali sedemmo, con cinque soldati di fronte. Chiesi la destinazione e seppi che eravamo diretti a Miane, in provincia di Treviso.
Durante il tragitto chiusi gli occhi per alcuni istanti, sforzandomi di essere altrove, e pensai con tristezza alla mia famiglia che aveva un disperato bisogno di me! Pensai ai giorni che si profilavano davanti e non provai desiderio di vedere ciò che mi riservava il futuro.
Gli eventi della guerra mi avevano portato, da alcune settimane, ad essere orfano di padre: era stato ferito da una fucilata delle “SS” ed era morto, dopo dieci ore di agonia, all’Ospedale di Feltre. Mio fratello Giuseppe, il primogenito, si trovava prigioniero in Algeria ed era per questo che io, il secondogenito, ero diventato un po’ come il capofamiglia, dato che eravamo undici fratelli e l’ultima nata, mia sorella Bruna, aveva solo sei mesi di vita. Ma la sofferenza più grande era per mia madre che, all’età di quarantasei anni, piangeva con il cuore straziato la morte del marito ed aveva poche speranze di rivederci tornare. Esiste, credo, una soglia del dolore, oltre la quale sopravviene una misericordiosa insensibilità, perché mia madre ci amava più di qualunque altra cosa al mondo.
Arrivati in piazza a Miane vedemmo la sede delle “SS”: era un bel fabbricato con il retro adibito a parcheggio per gli automezzi militari: camion, camionette e motociclette. Ci fecero scendere: nessuno di noi allora sapeva cosa avremmo dovuto affrontare.
Il mio sguardo abbracciò un enorme spazio verde, dove rigogliose piante di granoturco mostravano innumerevoli pannocchie dorate. Eravamo piantonati da due guardie e, nel profondo silenzio, Santangelo, un mio compagno di sventura, chiese timidamente il permesso di andare alla toilette: così ci avviammo tutti e cinque verso il campo di granoturco. Era una strana processione… Eravamo consapevoli di essere sotto il tiro delle pallottole e all’inizio mi muovevo come in un vuoto. Poi, poco a poco, la mia mente divenne attenta e mi sentii più vigile e percettivo di quanto non lo fossi mai stato. Mi bastò un attimo: alla prima distrazione della sentinella, mi rannicchiai tra le foglie verdi delle piante e strisciai carponi, guadagnando terreno, agile e svelto.
Se prima avevo amato camminare per i viottoli della mia campagna, ora percorsi sentieri sconosciuti finché giunsi, dopo circa due chilometri, in una casa di contadini. La padrona, una certa Angelina, mi offrì un buon bicchiere di vino e mi indicò il tragitto verso la Malga Mariéch, dove avevamo due mucche all’alpeggio. Camminai per altre colline, sapendo che era un’esperienza che non potevo condividere con nessuno, e, prima del calar del sole, arrivai a Malga Mariéch. Fortunatamente trovai ospitalità e ricovero per la notte.

 

a malga Mariech dove si rifugiò Giacomo in una vecchia foto

L’indomani mattina, mentre scendevo le valli, compresi che, per ovvi motivi, non avrei potuto ritornare a casa. Scelsi di affrontare immediatamente la situazione, cercando di non scoraggiarmi. Mi sentii cresciuto e scoprii che potevo farcela: lo dovevo a me stesso e ai miei cari!
Per due settimane fui latitante fra Campo di Alano di Piave, Schievenin, Castel di Prada e Cilladón di Quero, dove la generosità delle famiglie fu encomiabile. Questi quindici giorni furono una prova molto più dura di quanto avessi mai pensato!
Nel settembre del ’44 ci fu il famoso rastrellamento del Grappa e tutti coloro che erano stati catturati vennero poi liberati, con grande commozione dei loro familiari. In seguito Attilio Poloni, la guardia municipale, mi portò il cartellino per lavorare con i Tedeschi alla “Todt” sul Monte Tomba .La fine della guerra e l’arrivo degli Alleati fu senza dubbio una benedizione, dopo tante sofferenze e tanti combattimenti e riportò la pace fra i popoli e soprattutto la serenità nei cuori.

 

Giacomo, il secondo da destra in basso, con alcuni dei suoi fratelliGiacomo,

 

Giacomo, in una pitture del fratello Giulio

 

 

 

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