Un tempo le occasioni di incontro per la gente dei piccoli paesi e di Quero in particolare erano molto sentite e partecipate. Quelle principali erano le feste di Natale che però erano di solito riservate alla famiglia non solo per il sentimento religioso che le ispirava ma anche per il clima freddo e per la molta neve che ostacolavano gli spostamenti.
Erano le fiere di aprile e di settembre a riunire festosamente tutta la popolazione del capoluogo e delle frazioni per mangiare alle dieci del mattino la trippa nelle osterie accompagnata da molte “ombrette”, il classico bicchiere di vino. Era l’occasione per comprare le scarpe nuove, visto che non esistevano in paese negozi che vendevano tali articoli, le piante per rinnovare gli orti e la campagna, e, molto importante, le nuove bestie per la stalla o per il pollaio. Nella piazza Marconi erano presenti giostre e tirassegni con gran gioia di grandi e piccini.
Un’occasione di ritrovo completamente diversa era quella del funerale al quale i queresi partecipavano in massa in quanto allora essi costituivano una vera comunità di persone che si conoscevano a fondo l’un l’altra e che desideravano condividere tra tutti le loro gioie ed i dolori. Ciò contrasta vivamente con la vita attuale delle nostre città dove in uno stesso condominio viene spesso a mancare una persona senza che gli altri coabitanti lo vengano nemmeno a sapere! Nei funerali la numerosa partecipazione dei queresi che immancabilmente vi si poteva riscontrare era la riprova della stima goduta in paese dal defunto. Da registrare un’usanza, poi caduta in disuso, del tutto particolare. Durante la cerimonia in chiesa venivano raccolte delle offerte da due persone che di solito si offrivano per questo incarico e che, passando di banco in banco, prendevano nota dei nomi e dell’ammontare di ciascun obolo. Il denaro veniva poi devoluto a favore dell’asilo mentre la lista delle offerte era consegnata ai famigliari del morto a costituire quasi una classifica dei partecipanti al funerale sulla base dell’ammontare offerto da ciascuno di essi. Ma era già nella lunga processione che portava al camposanto e soprattutto in quella di ritorno che si cominciava a discorrere del più e del meno. La giornata, in evidente contrasto con il carattere dell’avvenimento, finiva spesso in allegria per il troppo vino bevuto nelle osterie.
A proposito di osterie vanno ricordati i cori che, ovviamente con esclusione delle giornate dedicate ai vari funerali, vi venivano improvvisati ed ai quali, generalmente, partecipavano in massa i presenti. Starsene tutti abbracciati in circolo spalla contro spalla a cantare sempre le stesse quattro canzoni ed assumendo ruoli ben determinati di prima o di seconda voce, costituiva un vero piacere, un sentirsi amici anche se il risultato canoro, in realtà, era piuttosto mediocre anche prima che i numerosi bicchieri di vino bevuto cominciassero a fare il loro effetto: figurarsi più tardi!. Io non so proprio immaginare cosa accadrebbe, all’epoca attuale, se gli avventori di uno qualunque dei bar di Quero, improvvisamente si mettessero a cantare a squarciagola come facevamo in quegli anni: probabilmente verrebbero chiamati i carabinieri per fermare lo scempio!
La festa più sentita e partecipata in paese era senza dubbio la Pasqua.
Veniva preceduta dagli intensi preparativi per la costruzione dei “capitelli”, cioè delle grandi edicole in legno rivestito di verdi rami di pino che, lungo le vie che la processione serale del venerdì santo doveva percorrere, rappresentavano alcune scene della passione di Nostro Signore. Era questo un lavoro che impegnava a fondo i giovani sia nella costruzione dei capitelli sia nel rappresentare, indossando i costumi dell’epoca, i vari personaggi della tradizione cristiana. Ricordo in maniera particolare un grande amico, chiamato Gigiomat (Luigi il matto) per la vita spericolata che amava fare ma che a Pasqua, per la sua figura assai somigliante alle raffigurazioni classiche del Cristo, era immancabilmente crocifisso anche senza che le sue convinzioni religiose condividessero appieno tale avvenimento storico.
Gigiomat è da alcuni anni venuto a mancare. E’ accaduto all’estero dove si era fatto onore come lavoratore emigrante e dove ora riposa la salma di questo giovane uomo cui tutti, ed io in particolare, a Quero volevamo bene.
La sera del venerdì santo aveva luogo la processione attraverso le vie del paese con brevi soste davanti ai capitelli nei quali figuravano Cristo e gli apostoli con vesti dai colori sgargianti e vivamente illuminati. Le scene rappresentate e gli attori in posa erano grosso modo sempre le stesse e quindi assolutamente prevedibili per i queresi. Da segnalare però un’annata eccezionale durante la quale si ebbe una novità tanto piacevole da rimanere impressa nella mia mente.
C’era a Quero il rione dei Simoi, una parte del capoluogo abitata da alcune famiglie tutte imparentate tra di loro e quindi con lo stesso cognome (Dalla Piazza), una vera e propria comunità appartata dal resto del paese. “Simoi” era uno dei tanti soprannomi con cui si usava individuare gli appartenenti alle varie famiglie.
Per una curiosa abitudine, tramandata da lungo tempo ma oggi definitivamente scomparsa, “Giuseppe Dalla Piazza” era chiamato “Bepi Simon”,” Domenico, lo stradino, era “Menico Fasolo” da distinguere dall’altro Domenico , l’impresario venuto recentemente a mancare con grande dispiacere di noi tutti per gli ottimi rapporti che intercorrevano e che era per noi “Menico Tronca”. Il mio amico “Pietro ” di cui racconterò più avanti il lavoro nelle miniere del Belgio, era “Piero Osel”, “Giovanni Collavo” era “Nani Nuto”, Albino il protagonista dell’episodio Vaiont di cui al cap. 2.7.1 era ” Albino Pano” e così via. Tra i soprannomi curiosi vanno ricordati quello di Carlo che, essendo commerciate di pollame, era per tutti “Carlo Ovi” e quello di “Belo” (Il bello) a suo tempo affibbiato a quell’ottima persona, purtroppo prematuramente scomparsa, che era Vittorino Simon il quale, accogliendone la bonaria arguzia, lo aveva accettato di buon grado pur essendo il diminutivo della seguente frase, non proprio edificante e che ne stravolgeva il significato : “Bello di notte perchè di giorno è brutto assai”
I giovani Simoi di cui sopra partecipavano raramente ai nostri giochi nè, di solito, collaboravano con noi alla costruzione dei capitelli anche perchè il loro rione non era toccato che marginalmente dalla processione del venerdì santo. Quella volta decisero invece di prendervi parte ed in maniera autonoma e speciale. Senza tanti preparativi, senza impianti elettrici di illuminazione, senza edicole e quindi cogliendo tutti di sorpresa, usarono l’alto e ripido pendio erboso che affianca la chiesa di S. Antonio lungo la via M. Cornella per rappresentarvi la salita del monte Calvario di Nostro Signore seguito da alcuni personaggi non meglio identificati, seminudi com’era costume a suo tempo, addobbati con semplici vesti ed illuminati soltanto dalla fioca luce di alcune candele appoggiate sull’erba e posizionate posteriormente alla scena.
Quando la processione, percorsa la Via Indipendenza, girò a 90 gradi attorno al negozio d’angolo che prima impediva di vedere avanti ed imboccò la Via M. Cornella, si trovò di fronte all’insolito spettacolo della salita al monte Calvario di Cristo caricato della croce e degli altri personaggi di cui si poteva intravedere, in controluce, solamente la siluette con un effetto scenico molto bello.
La successiva domenica di Pasqua, dopo aver partecipato in massa alle funzioni religiose, mentre il “campanò” (un singolare modo di suonare a festa le campane) suonava a distesa, tutti i giovani giocavano con le uova sode colorate che erano state preparate il giorno prima usando l’anilina di diversi colori o, molto spesso, dei colori naturali come la cipolla o gli spinaci fatti bollire assieme alle uova, per economizzare nelle spese. Il gioco più comune era il tiro con la moneta. Depositato il proprio uovo ben allineato con quelli degli altri, ogni concorrente lanciava a turno la moneta.
Si usavano le cento lire allora in normale corso. Qualche fortunato possedeva invece le dieci lire ante prima guerra mondiale, molto più adatte allo scopo perchè, oltre ad essere più grandi e quindi più facili da lanciare, esse erano in rame e quindi potevano essere affilate lungo tutta la circonferenza per facilitare il risultato finale. Vinceva l’uovo colpito colui che era riuscito a farvi penetrare la sua moneta in modo che sollevando l’uovo stesso da terra la moneta stessa ne restasse conficcata senza cadere. A furia di essere rimesso in palio e quindi ripetutamente inciso dalle monete, ogni uovo cadeva letteralmente a pezzi. Era quello il momento per mangiarselo avidamente senza badar troppo all’aspetto igienico della procedura.
Un altro modo di vincere un uovo era quello del “rigoletto”. Si trattava di una specie di pista circolare in sabbia umida delimitata da un cerchio in ferro da botte di circa due metri di diametro. Il più bello era quello costruito da Orlando nel suo cortile vicino alla chiesa. Oltre ad essere sagomato con pendenze varie, il rigoletto era fornito di una pedana di lancio costituita da un coppo rovesciato. Ogni giovane doveva far scendere il proprio uovo dal coppo orientandone la corsa in modo da colpire una delle uova degli altri concorrenti e che, in caso positivo, sarebbe stata vinta. Tale risultato non era affatto semplice da raggiungere in quanto la corsa dell’uovo, vera e propria palla ovale, non era per nulla rettilinea ed occorreva pertanto stimarne preventivamente la traiettoria.
A questi giochi partecipavano tutti i giovani fatta eccezione per Guido un nostro coetaneo che abitava in una casa sperduta in montagna sopra Schievenin. Guido, a causa delle condizioni di vita in zona completamente isolata ed anche per un suo difetto di costituzione, era un tipo particolare ed aveva una sola passione : la “britola” cioè un coltello ricurvo tascabile che portava sempre con sé e che gli serviva per sbucciare la frutta, per incidere il legno in piccoli lavori ma soprattutto costituiva per lui un oggetto da toccare, da sentire sempre presente nella tasca e da mostrare orgogliosamente a noi suoi coetanei quando veniva in paese. La britola per Guido era un amico fedele sempre presente al suo fianco per alleviare la sua grande solitudine. Quel giorno di Pasqua incontrato Guido e consci dell’importanza che dava alla sua britola gli chiedemmo di farcela vedere ma era successa una cosa incredibile: Guido l’aveva dimenticata a casa. Come se ne accorse queste furono le sue parole: “Il giorno di Pasqua senza la britola, impossibile!”. E Guido, se ne tornò immediatamente a casa con un cammino di un’ora nell’andata ed un’altra al ritorno pur di poter gustare degnamente la rimanente parte del giorno di festa.
Su queste riunioni in gran massa farei rilevare un aspetto interessante che le distingue da quelle che, in particolari occasioni, si organizzano anche ai nostri giorni. Avviene anche oggi che si ritrovino assieme grandi moltitudini per ascoltare un cantante famoso, per uno spettacolo in piazza organizzato dalla TV, per partecipare ad un importante avvenimento sportivo, per una festa folcroristica nota ecc. ecc. Una cosa distingue queste oceaniche riunioni: allora le persone che si riunivano erano sempre le stesse che confluivano nei ritrovi tradizionali raggiungendoli normalmente a piedi e quindi conoscendosi indistintamente tutte. L’incontro favoriva la comunicazione tra le persone, cementava le amicizie e ne faceva nascere delle nuove. Oggi invece ci si ritrova nei posti più disparati tra estranei arrivati da lontano, che non si conoscono affatto e che, a festa conclusa tornano a casa senza aver comunicato con nessun altro. Ciò contribuisce, assieme a tanti altri fattori come la televisione che fa restare tutti in casa, alla paura di serali incontri con persone poco raccomandabili ecc,. a svolgere una vita isolata famiglia per famiglia e quindi a rendere il modo di vivere molto più arido e, alla fine, a peggiorare i rapporti tra persona e persona anche all’interno della famiglia ed, in definitiva, anche il carattere di tutti.