-Nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale, non esistendo attività alcuna se non un’agricoltura assai povera, la gioventù attiva di Quero era costretta ad emigrare in Svizzera dove formava una schiera di ottimi addetti ai lavori edilizi che in pieno inverno, sospesa l’attività per il freddo, doveva tornare a casa in Italia ed aspettare lì la riapertura primaverile dei cantieri. Questo fatto si rivelerà, molti anni dopo, causa di una notevole decurtazione della pensione, decurtazione assolutamente ingiusta visti i sacrifici sostenuti.
Racconta Tarcisio: al sopraggiungere della stagione invernale, nel tugurio svizzero dove dormivamo, faceva tanto freddo che mettevamo sul letto, oltre alle coperte, tutto ciò che possedevamo, vestiti, giacche, maglioni, calze, tutto. Una volta, se non altro per crearci l’illusione di essere meglio coperti, smontammo la porta che chiudeva la nostra stanza e mettemmo anche quella sopra il letto. Le cose andavano ancora peggio per quelli, giovanissimi, emigrati in Belgio per lavorare nelle miniere di carbone.
Lì non c’era sospensione invernale anzi le ore giornaliere di lavoro ed il conseguente guadagno, con l’avanzare dell’età e dell’esperienza, aumentavano sempre di più innescando una pericolosa spirale. Era la salute che, quanto più cresceva il tempo di permanenza in miniera, tanto più era compromessa dalla silicosi che finirà per portare prematuramente alla morte. Io stesso, diventato in epoca successiva geometra professionista e costruita a Quero la casa di abitazione di alcuni di loro nella quale sognavano di venire a trascorrere gli ultimi anni, dovrò con dolore constatare come nessuno di loro sia riuscito a vivere a sufficienza per poterlo fare appieno. Piero, uno dei pochi che è riuscito a staccarsi da quella specie di mal di miniera dal quale di solito non si guariva che troppo tardi, andando a fare il bagno nel Piave, mi mostrava i segni neri di carbone che ha nella schiena, spiegandomi di averli fatti strisciando a petto nudo ad un migliaio di metri di profondità sotto il suolo per cavare, con un rudimentale attrezzo manovrato a mano, la vena di carbone spessa poche decine di centimetri entro la quale doveva infilarsi per lunghi tratti! La sua opera era pagata a contratto cioè un tot per ogni chilo di carbone estratto. Il lavoro giornaliero minimo da eseguire consisteva nel far progredire il fronte di scavo largo due metri per una profondità di almeno quattro metri. Il racconto delle gesta di questo ragazzo diciassettenne faceva rabbrividire.
Mi diceva come il loro momento più felice fosse, a lavoro del giorno concluso, la risalita con l’ascensore cantando, per tutto il lungo periodo di tempo necessario per riconquistare la superficie, canzoni del minatore. In tale frangente era tanto grande il bisogno di ritornare all’aria libera che continuavano a formulare, tra di loro, le più strane supposizioni sulle condizioni meteorologiche che avrebbero trovato al momento di emergere dal buio profondo della miniera avendo lì perduto, a tale riguardo, ogni cognizione. Piero, per alcuni anni successivi ai due trascorsi in Belgio, fu preso da accessi di tosse con emissione di consistenti quantitativi di quella polvere nera che si era depositata nei suoi bronchi e che la sua fortefibra riusciva fortunatamente ad espellere fino a farli ritornare perfettamente puliti.
Più tardi, quando mi prese la passione della fotografia, ebbi modo di riprodurre il documento lasciapassare con foto rilasciatogli a suo tempo dalla direzione belga della miniera, dove compariva un’eloquente immagine di ragazzino imberbe dall’aria smarrita. Non sono però mai riuscito a cancellare dalla mia mente il confronto, forse il più rappresentativo dell’abissale cambiamento intervenuto nella società in quest’ultimo mezzo secolo, tra due diversi modi di decorare la pelle dei giovani che un tempo non potevano sottrarsene in quanto ampie parti del loro corpo erano, volenti o nolenti, dolorosamente incise dagli spuntoni di roccia nera di carbone, e gli stessi giovani che oggi vanno di loro spontanea volontà a farsi fare dei neri tatuaggi nelle varie parti del corpo.
LA MINIERA DEL BELGIO – CRONACA DI UNA TRAGEDIA di Stefano Cricoli
Ecco una parte del racconto di Stefano Cricoli:“Il viaggio da Milano durava in pratica due giorni. Si partiva da Milano il lunedì mattina, si viaggiava tutto il lunedì e si arrivava in Belgio nel pomeriggio del martedì. Circa mille persone viaggiavano su ogni treno. Per quasi tutti era il primo viaggio di una certa importanza, o il primo in assoluto, un viaggio decisamente poco confortevole, specialmente quando si attraversava la Svizzera. Al passaggio per la Svizzera, infatti, per un certo tempo i vagoni venivano chiusi e il treno proseguiva senza nessuna fermata fino a Basilea, per non rischiare di perdere qualche passeggero lungo il tragitto. Le ragioni erano comprensibili: considerato che la Svizzera era una meta ben più ambita del Belgio, anche perché più vicina, molti sognavano di scendere e di fermarsi lì. Dopo Basilea i vagoni potevano di nuovo essere aperti, poiché nessuno voleva scendere in Francia. Le visite mediche d’idoneità al lavoro venivano sbrigativamente svolte durante il viaggio. Per il resto, sui treni non c’era praticamente alcun tipo d’assistenza. ……….”
Un’altra importante schiera di giovani lavoratori era impegnata in Italia e all’estero nella costruzione di grandi opere edilizie degli impianti idroelettrici e, anche in questo frangente, si faceva notare per la bravura e l’impegno. La loro vita era dura e pericolosa. In uno di questi grandi cantieri, Giuseppe, un ragazzo che abitava in Via Garibaldi vicino al cinema Prealpi, ha avuto la sua gioventù spezzata lontanissimo dalla sua famiglia nella quale ha lasciato un vuoto incolmabile. Sono oltre 300 le vite umane di varia nazionalità perdute per la costruzione della diga di Kariba. Lo ricorda una lapide con i loro nomi posta lì vicino: l’ultimo in fondo alla fila centrale è proprio quello dello sfortunato Giuseppe.
La Campana della foto si trova su una collina vicina alla diga di Kariba ed ha una storia commovente essendo stata costruitaper uno scopo preciso da un gruppo di operai italiani ricavandola da una pezzo di macchina operatrice dismessa dal cantiere.Per non alterare minimamente quanto successo si allegano soltanto i commoventi documenti originali . (clccare sulla foto e poi cliccare qui)RICERCA STORICA EFFETTUATA DA MANUEL CARATI ( bru.man@libero.it )
Agli inizi della mia attività professionale ho lavorato anch’io nella costruzione di quattro impianti idroelettrici dove, potendo godere, sia pur con notevole responsabilità personale, di una posizione privilegiata se paragonata a quella delle maestranze, ho avuto modo di constatare personalmente quanto fosse duro tutto il loro lavoro ed in particolar modo quello di costruzione delle gallerie. Essere là dentro era come trovarsi in un girone dell’inferno dantesco: acqua che pioveva dal soffitto e acqua che scorreva a pavimento rendendo obbligatorio l’uso degli stivali e dell’impermeabile da cantiere che aumentavano ulteriormente le difficoltà del lavoro di per sè molto duro, un buio pesto malamente rischiarato con lampade a carburo ed infine un rumore assordante ed un gran polverone provocati dai perforatori ad aria compressa manovrati dagli operai. Quando venivano sparate le mine, invece di uscire all’aperto, essi arretravano di mezzo chilometro e poi, superato il fragore dello scoppio turandosi le orecchie, aspettavano che l’aria sana introdotta in galleria a mezzo di grosse tubazioni, avesse bonificato un po’ l’atmosfera per tornare al loro compito, di per sé molto pesante e per di più svolto in questo ambiente infernale saturo di fumo, di polvere, di odori e di rumori insopportabili.